Durante il Festival di Sanremo 2021 una musicista sul palco dell’Ariston ha chiesto al conduttore di chiamarla con il termine al maschile “Direttore d’orchestra” suscitando irritazione ma anche consenso.
Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico?
È chiara la potente tradizione “androcentrica”, cioè incentrata sull’uomo, che caratterizza la società italiana.
Forti richiami a rivedere questa tradizione androcentrica sono arrivati da diversi settori della società, dall’accademia e dalle istituzioni di molti Paesi europei.
Le risposte più frequenti adducono l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Sofia Loren attore.
Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche.
Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale a valorizzare la soggettività femminile[1]?
Le parole sono il mezzo con cui rivestiamo i nostri pensieri e li rendiamo disponibili agli altri. È infatti attraverso il linguaggio che comunichiamo, esprimiamo concetti, sentimenti, intenzioni e, come ben sappiamo, la lingua è una cosa viva che si modifica con il tempo e con le influenze che derivano dalla società[2].
La società nella quale viviamo si è modificata, si modifica e si modificherà ancora e occorre che il nostro linguaggio sia in grado di mettere l’accento anche, e talvolta soprattutto, sulle nuove realtà che nascono e si consolidano. Professioni e funzioni che sono state per anni di esclusivo dominio maschile sono invece oggi rivestite da uomini e donne indifferentemente e, anche se siamo molto lontani dal vivere in una società che dà pari opportunità a entrambi i generi, ci sembra doveroso che anche il linguaggio che comunemente usiamo esprima questa nuova realtà.
Le parole designano cose e persone, eventi e stati di fatto; spesso inconsciamente, attraverso il linguaggio attribuiamo loro una connotazione non neutra. Attraverso il linguaggio non ci limitiamo a descrivere l’esistente ma contribuiamo, talvolta, alla costruzione e al rafforzamento di vecchi e nuovi stereotipi culturali. La lingua rispecchia la cultura della nostra società[3]. La lingua può creare realtà ed essere un potente motore di cambiamento.
[1] Robustelli C., Infermiera sì, ingegnera no? in http://www.accademiadellacrusca.it/en/speakers-corner/infermiera-s-ingegnera
[2] Robustelli C., Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Progetto Genere e linguaggio. Parole e immagini delle comunicazione, Firenze 2012, pag. V
[3] Robustelli C., Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Progetto Genere e linguaggio. Parole e immagini delle comunicazione, Firenze 2012, pag. VII