Uso e distribuzione del genere grammaticale

Uso e distribuzione del genere grammaticale

  1. Questioni linguistiche: uso e distribuzione del genere grammaticale
  2. Il lessico dell’italiano
  1. Questioni linguistiche: uso e distribuzione del genere grammaticale

In italiano il genere grammaticale dei nomi è comunemente congruo con il genere biologico del referente (cioè il sesso della persona alla quale ci si riferisce): i termini che si riferiscono a un essere femminile sono di genere grammaticale femminile e quelli che si riferiscono a un essere maschile sono di genere grammaticale maschile. L’articolo “concorda” per quanto riguarda il genere (e il numero) con il nome al quale si riferisce, quindi così come di dice la maestra e non la maestro si dirà la ministra e non la ministro. Non c’è nessuna ragione di tipo linguistico per riservare ai nomi di professione e di ruoli istituzionali un trattamento diverso[1].

  1. Il lessico dell’italiano

Il lessico dell’italiano prevede sia un repertorio ormai radicato di forme femminili, sia una serie di neoformazioni.

– i termini -o, – aio/-ario mutano in -a, – aia/-aria es. architetta, avvocata, chirurga, commissaria, deputata, impiegata, ministra, prefetta, notaia, primaria, segretaria (generale), sindaca

– i termini –iere mutano in –iera es. consigliera, infermiera, pioniera, portiera – i termini in –sore mutano in –sora es. assessora, difensora, evasora, oppressora, revisora, etc.

– i termini in –tore mutano in –trice es. ambasciatrice, amministratrice, ispettrice, redattrice, senatrice.

Nei casi seguenti la forma del termine non cambia e si ha soltanto l’anteposizione dell’articolo femminile: – termini in -e /-a es. custode, giudice, interprete, parlamentare, preside, poeta, vigile

 – forme italianizzate di participi presenti latini es. agente, dirigente, inserviente, presidente, rappresentante – composti con capo es. capofamiglia, caposervizio.

Tuttavia, a differenza di quanto suggerito da Alma Sabatini, la linguista Cecilia Robustelli si propone di conservare le forme in -essa, es. dottoressa, professoressa, e altre forme, come direttrice, che sono attestate da una lunga tradizione, sono ancora pienamente in uso, e sembrano proprio per queste ragioni preferibili alle forme dottora, poeta, professora e direttora.

 

[1] Sabatini A., Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1986, pagg. 103-105

Gli stereotipi nel linguaggio

Durante il Festival di Sanremo 2021 una musicista sul palco dell’Ariston ha chiesto al conduttore di chiamarla con il termine al maschile “Direttore d’orchestra” suscitando irritazione ma anche consenso.

Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico?

È chiara la potente tradizione “androcentrica”, cioè incentrata sull’uomo, che caratterizza la società italiana.

Forti richiami a rivedere questa tradizione androcentrica sono arrivati da diversi settori della società, dall’accademia e dalle istituzioni di molti Paesi europei.

Le risposte più frequenti adducono l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Sofia Loren attore.

Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche.

Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale a valorizzare la soggettività femminile[1]?

Le parole sono il mezzo con cui rivestiamo i nostri pensieri e li rendiamo disponibili agli altri. È infatti attraverso il linguaggio che comunichiamo, esprimiamo concetti, sentimenti, intenzioni e, come ben sappiamo, la lingua è una cosa viva che si modifica con il tempo e con le influenze che derivano dalla società[2].

La società nella quale viviamo si è modificata, si modifica e si modificherà ancora e occorre che il nostro linguaggio sia in grado di mettere l’accento anche, e talvolta soprattutto, sulle nuove realtà che nascono e si consolidano. Professioni e funzioni che sono state per anni di esclusivo dominio maschile sono invece oggi rivestite da uomini e donne indifferentemente e, anche se siamo molto lontani dal vivere in una società che dà pari opportunità a entrambi i generi, ci sembra doveroso che anche il linguaggio che comunemente usiamo esprima questa nuova realtà.

Le parole designano cose e persone, eventi e stati di fatto; spesso inconsciamente, attraverso il linguaggio attribuiamo loro una connotazione non neutra. Attraverso il linguaggio non ci limitiamo a descrivere l’esistente ma contribuiamo, talvolta, alla costruzione e al rafforzamento di vecchi e nuovi stereotipi culturali. La lingua rispecchia la cultura della nostra società[3]. La lingua può creare realtà ed essere un potente motore di cambiamento.

 

[1] Robustelli C., Infermiera sì, ingegnera no? in http://www.accademiadellacrusca.it/en/speakers-corner/infermiera-s-ingegnera

[2] Robustelli C., Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Progetto Genere e linguaggio. Parole e immagini delle comunicazione, Firenze 2012, pag. V

[3] Robustelli C., Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Progetto Genere e linguaggio. Parole e immagini delle comunicazione, Firenze 2012, pag. VII

L’ingiustizia delle parole

Di seguito alcune parole che assumono un significato diverso se riferite al femminile o al maschile.

Stefano Bartezzaghi in Non se ne può più”, descrive la natura maschilistica e sessista del lessico che comunemente usiamo. Il pregiudizio si deposita lì, nel linguaggio e nei modi di dire che adoperiamo senza pensarci[1].

[1] Stefano Bartezzaghi, Non se ne può più, Mondadori, Milano 2010

La rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio

La rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio costituisce ormai da molti anni un argomento di riflessione per la comunità scientifica internazionale, ma anche per il mondo politico e, oggi, sempre più anche per quello economico. In Italia numerosi studi hanno messo in evidenza che la figura femminile viene spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo.

Il linguaggio degli stereotipi

La comunicazione veicolata dai mass media si basa sul linguaggio. E proprio nel linguaggio risiedono spesso stereotipi.

Già nelle parole che usiamo si annida non la differenza, bensì una forma di discriminazione.

Ci sono le polarizzazioni e asimmetrie semantiche, per cui determinati termini al maschile hanno un significato dall’accezione positiva, mentre al femminile succede esattamente il contrario.

 

LA GOVERNANTE/IL GOVERNANTE

Il femminile indica una donna stipendiata che si occupa dei bambini e dell’andamento della casa; il sostantivo maschile il capo del governo di un paese, che amministra il potere per conto di un grande numero di persone.

Come a dire che, stando al linguaggio, il “regno” delle donne è la casa, mentre per gli uomini è un paese o una nazione.

 

MAESTRA/MAESTRO

La prima insegna nella scuola materna o elementare, il secondo è esperto su qualcosa e va preso ad esempio e modello.

Sembrano davvero banalità, minuzie grammaticali che diamo per scontate e usiamo come se niente fosse.

 

Verso un linguaggio rispettoso dell’identità di genere

1) Sessismo linguistico

2) Il linguaggio, ruolo fondamentale nell’identità di genere

 3) Linguaggio e pensiero

4) L’italiano e il genere

 

“Il preside ha ricevuto una telefonata dal marito ed è uscito“.

 

 1) Sessismo linguistico

Con l’espressione sessismo linguistico si fa riferimento alla nozione linguistic sexism elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti nell’ambito degli studi sulla manifestazione della differenza sessuale nel linguaggio[1].

Era emersa infatti una profonda discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua, e di ciò si discuteva anche in Italia[2].

Nel 1987 il libro Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, arriva a interessare attraverso la stampa anche il grande pubblico.

La questione della rappresentazione della donna attraverso il linguaggio emergeva in Italia in un periodo in cui la questione della parità fra donna e uomo era alla ribalta sul piano sociale e politico.

Fino alla fine degli anni ’80 l’idea di parità sembrava implicare un adeguamento della donna al modello maschile o, più tecnicamente, una sua “omologazione” al paradigma socioculturale maschile. Per le donne che raggiungevano posizioni professionali o occupavano ruoli istituzionali di prestigio essere incluse nel “mondo linguistico” e sentirsi chiamare direttore, architetto, consigliere o chirurgo rappresentava una prova della tanto sospirata parità.

2) Il linguaggio, ruolo fondamentale nell’identità di genere

Lo scopo del lavoro di Alma Sabatini si riallacciava a quello di (ri)stabilire la “parità fra i sessi” attraverso il riconoscimento delle differenze di genere. Al linguaggio viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile: è perciò necessario che sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomeno continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi.

 3) Linguaggio e pensiero

Il dibattito rivitalizza filoni di ricerca, come la relazione tra lingua e pensiero e l’ipotesi che la lingua condizioni il modo di pensare (Sapir-Whorf).

Secondo lo psicologo Vygotskij, la prima funzione del linguaggio è la funzione comunicativa. Il linguaggio è anzitutto il mezzo di relazione sociale, il mezzo di espressione e comprensione.

La lingua segue inevitabilmente l’evoluzione della società. L’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta. La parola è una materializzazione, un’azione vera e propria.

La lingua è storia; è un sistema di segni verbali o simbolici e di regole per il loro uso che vive nel tempo e si trasforma nel tempo.

4) L’italiano e il genere

In italiano e in tutte le lingue che distinguono morfologicamente il genere grammaticale maschile e quello femminile, la donna risulta spesso nascosta “dentro” il genere grammaticale maschile, che viene usato in riferimento a donne e uomini (gli spettatori, i cittadini, ecc.). Frequentissimo è anche l’uso della forma maschile anziché femminile per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali riferiti alle donne: sindaco e non sindaca, chirurgo e non chirurga, ingegnere e non ingegnera, ecc.

“Signora maestra come si forma il femminile?”

“Partendo dal maschile: alla ‘o’ finale si sostituisce semplicemente una ‘a’”

“Signora maestra, e il maschile come si forma?”

“Il maschile non si forma, esiste[3]

 

Sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adattare il linguaggio alla nuova realtà sociale sono ancora forti e così, per esempio, donne ormai diventate professioniste acclamate e prestigiose, salite ai posti più alti delle gerarchie politiche e istituzionali, vengono definite con titoli di genere grammaticale maschile: il ministro Maria Elena Boschi, il magistrato Ilda Boccassini, l’avvocato Giulia Bongiorno.

Tuttavia, la situazione è in movimento, si notano una maggiore attenzione, da parte dei media, ad esempio, a usare il genere femminile per i titoli professionali e i ruoli istituzionali, sui maggiori quotidiani l’uso di ministra e deputata è triplicato negli ultimi anni.

 

[1] Robustelli C. Il sessismo nella lingua italiana in http://www.treccani.it/lingua_italiana/speciali/femminile/Robustelli.html

[2] Robustelli C., Lingua e identità di genere, «Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata», XXIX, 2000, 507-527.

Robustelli C., Lingua, genere e politica linguistica nell’Italia dopo l’Unità, in Storia della lingua e storia dell’Italia unita. L’italiano e lo stato nazionale, Atti del IX Convegno dell’Associazione per la Storia della lingua italiana (Firenze, 2-4 dicembre 2010), Firenze, Cesati, 2011, pp. 587-600

Robustelli C., Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Progetto Genere e linguaggio. Parole e immagini delle comunicazione, Firenze 2012

[3] Priulla G., C’è differenza, Franco Angeli, Milano 2013