Uso e distribuzione del genere grammaticale

Uso e distribuzione del genere grammaticale

  1. Questioni linguistiche: uso e distribuzione del genere grammaticale
  2. Il lessico dell’italiano
  1. Questioni linguistiche: uso e distribuzione del genere grammaticale

In italiano il genere grammaticale dei nomi è comunemente congruo con il genere biologico del referente (cioè il sesso della persona alla quale ci si riferisce): i termini che si riferiscono a un essere femminile sono di genere grammaticale femminile e quelli che si riferiscono a un essere maschile sono di genere grammaticale maschile. L’articolo “concorda” per quanto riguarda il genere (e il numero) con il nome al quale si riferisce, quindi così come di dice la maestra e non la maestro si dirà la ministra e non la ministro. Non c’è nessuna ragione di tipo linguistico per riservare ai nomi di professione e di ruoli istituzionali un trattamento diverso[1].

  1. Il lessico dell’italiano

Il lessico dell’italiano prevede sia un repertorio ormai radicato di forme femminili, sia una serie di neoformazioni.

– i termini -o, – aio/-ario mutano in -a, – aia/-aria es. architetta, avvocata, chirurga, commissaria, deputata, impiegata, ministra, prefetta, notaia, primaria, segretaria (generale), sindaca

– i termini –iere mutano in –iera es. consigliera, infermiera, pioniera, portiera – i termini in –sore mutano in –sora es. assessora, difensora, evasora, oppressora, revisora, etc.

– i termini in –tore mutano in –trice es. ambasciatrice, amministratrice, ispettrice, redattrice, senatrice.

Nei casi seguenti la forma del termine non cambia e si ha soltanto l’anteposizione dell’articolo femminile: – termini in -e /-a es. custode, giudice, interprete, parlamentare, preside, poeta, vigile

 – forme italianizzate di participi presenti latini es. agente, dirigente, inserviente, presidente, rappresentante – composti con capo es. capofamiglia, caposervizio.

Tuttavia, a differenza di quanto suggerito da Alma Sabatini, la linguista Cecilia Robustelli si propone di conservare le forme in -essa, es. dottoressa, professoressa, e altre forme, come direttrice, che sono attestate da una lunga tradizione, sono ancora pienamente in uso, e sembrano proprio per queste ragioni preferibili alle forme dottora, poeta, professora e direttora.

 

[1] Sabatini A., Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1986, pagg. 103-105

La rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio

La rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio costituisce ormai da molti anni un argomento di riflessione per la comunità scientifica internazionale, ma anche per il mondo politico e, oggi, sempre più anche per quello economico. In Italia numerosi studi hanno messo in evidenza che la figura femminile viene spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo.

Il linguaggio degli stereotipi

La comunicazione veicolata dai mass media si basa sul linguaggio. E proprio nel linguaggio risiedono spesso stereotipi.

Già nelle parole che usiamo si annida non la differenza, bensì una forma di discriminazione.

Ci sono le polarizzazioni e asimmetrie semantiche, per cui determinati termini al maschile hanno un significato dall’accezione positiva, mentre al femminile succede esattamente il contrario.

 

LA GOVERNANTE/IL GOVERNANTE

Il femminile indica una donna stipendiata che si occupa dei bambini e dell’andamento della casa; il sostantivo maschile il capo del governo di un paese, che amministra il potere per conto di un grande numero di persone.

Come a dire che, stando al linguaggio, il “regno” delle donne è la casa, mentre per gli uomini è un paese o una nazione.

 

MAESTRA/MAESTRO

La prima insegna nella scuola materna o elementare, il secondo è esperto su qualcosa e va preso ad esempio e modello.

Sembrano davvero banalità, minuzie grammaticali che diamo per scontate e usiamo come se niente fosse.

 

Verso un linguaggio rispettoso dell’identità di genere

1) Sessismo linguistico

2) Il linguaggio, ruolo fondamentale nell’identità di genere

 3) Linguaggio e pensiero

4) L’italiano e il genere

 

“Il preside ha ricevuto una telefonata dal marito ed è uscito“.

 

 1) Sessismo linguistico

Con l’espressione sessismo linguistico si fa riferimento alla nozione linguistic sexism elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti nell’ambito degli studi sulla manifestazione della differenza sessuale nel linguaggio[1].

Era emersa infatti una profonda discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua, e di ciò si discuteva anche in Italia[2].

Nel 1987 il libro Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, arriva a interessare attraverso la stampa anche il grande pubblico.

La questione della rappresentazione della donna attraverso il linguaggio emergeva in Italia in un periodo in cui la questione della parità fra donna e uomo era alla ribalta sul piano sociale e politico.

Fino alla fine degli anni ’80 l’idea di parità sembrava implicare un adeguamento della donna al modello maschile o, più tecnicamente, una sua “omologazione” al paradigma socioculturale maschile. Per le donne che raggiungevano posizioni professionali o occupavano ruoli istituzionali di prestigio essere incluse nel “mondo linguistico” e sentirsi chiamare direttore, architetto, consigliere o chirurgo rappresentava una prova della tanto sospirata parità.

2) Il linguaggio, ruolo fondamentale nell’identità di genere

Lo scopo del lavoro di Alma Sabatini si riallacciava a quello di (ri)stabilire la “parità fra i sessi” attraverso il riconoscimento delle differenze di genere. Al linguaggio viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile: è perciò necessario che sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomeno continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi.

 3) Linguaggio e pensiero

Il dibattito rivitalizza filoni di ricerca, come la relazione tra lingua e pensiero e l’ipotesi che la lingua condizioni il modo di pensare (Sapir-Whorf).

Secondo lo psicologo Vygotskij, la prima funzione del linguaggio è la funzione comunicativa. Il linguaggio è anzitutto il mezzo di relazione sociale, il mezzo di espressione e comprensione.

La lingua segue inevitabilmente l’evoluzione della società. L’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta. La parola è una materializzazione, un’azione vera e propria.

La lingua è storia; è un sistema di segni verbali o simbolici e di regole per il loro uso che vive nel tempo e si trasforma nel tempo.

4) L’italiano e il genere

In italiano e in tutte le lingue che distinguono morfologicamente il genere grammaticale maschile e quello femminile, la donna risulta spesso nascosta “dentro” il genere grammaticale maschile, che viene usato in riferimento a donne e uomini (gli spettatori, i cittadini, ecc.). Frequentissimo è anche l’uso della forma maschile anziché femminile per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali riferiti alle donne: sindaco e non sindaca, chirurgo e non chirurga, ingegnere e non ingegnera, ecc.

“Signora maestra come si forma il femminile?”

“Partendo dal maschile: alla ‘o’ finale si sostituisce semplicemente una ‘a’”

“Signora maestra, e il maschile come si forma?”

“Il maschile non si forma, esiste[3]

 

Sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adattare il linguaggio alla nuova realtà sociale sono ancora forti e così, per esempio, donne ormai diventate professioniste acclamate e prestigiose, salite ai posti più alti delle gerarchie politiche e istituzionali, vengono definite con titoli di genere grammaticale maschile: il ministro Maria Elena Boschi, il magistrato Ilda Boccassini, l’avvocato Giulia Bongiorno.

Tuttavia, la situazione è in movimento, si notano una maggiore attenzione, da parte dei media, ad esempio, a usare il genere femminile per i titoli professionali e i ruoli istituzionali, sui maggiori quotidiani l’uso di ministra e deputata è triplicato negli ultimi anni.

 

[1] Robustelli C. Il sessismo nella lingua italiana in http://www.treccani.it/lingua_italiana/speciali/femminile/Robustelli.html

[2] Robustelli C., Lingua e identità di genere, «Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata», XXIX, 2000, 507-527.

Robustelli C., Lingua, genere e politica linguistica nell’Italia dopo l’Unità, in Storia della lingua e storia dell’Italia unita. L’italiano e lo stato nazionale, Atti del IX Convegno dell’Associazione per la Storia della lingua italiana (Firenze, 2-4 dicembre 2010), Firenze, Cesati, 2011, pp. 587-600

Robustelli C., Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Progetto Genere e linguaggio. Parole e immagini delle comunicazione, Firenze 2012

[3] Priulla G., C’è differenza, Franco Angeli, Milano 2013

Il corpo della donna nella pubblicità

“Nell’impero della bellezza non vi sono compromessi, e la donna, schiava o regina, è subito disprezzata o adorata”.                                    Anna Laetitia Barbauld, Song V, in Poems, vv. 16-18.

Nella pubblicità, la donna non è solo oggetto erotico, ma rende erotici tutti gli oggetti[1]. Spesso, addirittura, il corpo non viene neppure rappresentato nella sua interezza. Basta un particolare anatomico isolato e rappresentato in modo erotico.

Il corpo diventa quindi merce, privato di ogni valore in sé e subordinato al ruolo di “erotizzatore” di qualunque prodotto, il quale perde così significato.

Non è solo il prodotto a perdere il suo contenuto referenziale, ma anche il corpo femminile, reso estetico e ridotto unicamente all’aspetto sensuale, erotico.

 

La donna non viene considerata un essere umano, ma un oggetto tra gli oggetti.

La pubblicità rappresenta il classico rapporto di subalternità della donna nei confronti dell’uomo: la donna acquista ed utilizza i prodotti in funzione dell’uomo, per aumentare la propria bellezza, per rendergli il focolare più accogliente, per crescere i figli con la sua approvazione ed il suo orgoglio.

Pubblicità sessista

La preoccupazione è rivolta soprattutto verso i bambini, i quali utilizzano spesso la pubblicità per ottenere informazioni utili alla formazione della conoscenza della realtà ed alla costruzione della loro identità.

La tutela delle nuove generazioni è necessaria e richiede l’interazione consapevole ed organica di soggetti diversi.

Le istituzioni hanno il compito di offrire un’adeguata legislazione di fondo; i mass media, le agenzie pubblicitarie e le aziende produttrici hanno, invece, il compito di definire codici etici di comportamento per promuovere in maniera corretta e non tendenziosa i propri prodotti e per veicolare i propri contenuti.

Un compito non indifferente spetta poi alla scuola, chiamata a riadattarsi ai nuovi linguaggi mediatici e a fornire agli allievi strumenti critici di comprensione.

Alla famiglia, infine, tocca sicuramente il ruolo più gravoso, ma anche più importante: affiancare costantemente e con la giusta intensità la crescita dei propri figli nella socializzazione mediatica[2].

 

[1] Puggelli F.R., Belle a tutti i costi, in http://www.socialnews.it/articoli/belle-a-tutti-i-costi

[2] Puggelli F.R., Belle a tutti i costi, in http://www.socialnews.it/articoli/belle-a-tutti-i-costi

Gli stereotipi di genere alimentati dalla cultura sociale

1.1.) Il doppio carattere degli stereotipi

1.2.) Sono radicati nella cultura sociale

1.3.) Cosa fare

 

1.1.) Il doppio carattere degli stereotipi

Per loro natura gli stereotipi di genere hanno un doppio carattere: definiscono ciò che sono le persone, ma anche come dovrebbero essere.

Quello che è pericoloso è che, creando aspettative differenti per i comportamenti maschili e femminili, finiscono con l’avere una funzione normativa nel prefigurare un certo tipo di comportamento come più desiderabile per un genere anziché per un altro[1]”.

Il problema diventa più grave allorché si aggiunge un giudizio. Se la società ritiene che un determinato comportamento non sia accettabile, chi lo segue è giudicato negativamente e ciò può diventare causa di discriminazione.

Non solo, ma quelle stesse qualità che nell’uomo sono considerate apprezzabili dalla mentalità comune, come l’autorevolezza, la competizione, se espresse da una donna vengono giudicate negativamente, perché da lei ci si aspetta un confronto su basi paritarie ed un atteggiamento più incline alla mediazione.

La piccola cuoca_Pierre Édouard Frère_Brooklyn Museum
La piccola cuoca, Pierre Édouard Frère, Brooklyn Museum

1.2.) Sono radicati nella cultura sociale

Gli stereotipi non permettono i cambiamenti ed inoltre, in quanto continuamente alimentati dalla cultura sociale, non vengono messi in discussione, ma perdurano anche quando sono cambiate le condizioni e lo stesso humus culturale che li ha generati.

Gli stereotipi di mascolinità e di femminilità infatti, in quanto semplificazioni con cui la società condivide e stabilisce comportamenti appropriati per l’uomo e la donna ed in quanto sono delle categorizzazioni, sono radicati nella cultura sociale (e quindi difficilmente mutabili) e vengono trasmessi dalla famiglia e dalla scuola.

L’interpretazione e la classificazione della realtà attraverso gli stereotipi ed in particolare attraverso quelli di genere portano ad una rappresentazione che spesso non coincide con l’evidenza empirica e possono provocare delle conseguenze anche gravi.

Per esempio sui processi di autostima, alimentando nelle donne lo sviluppo di sentimenti di sottomissione e passività; negli uomini, violenza, connessa con le pratiche di addestramento all’antifemminilità, omofobia, transfobia e aggressività, ma al contempo confusione ed insicurezza.

1.3.) Cosa fare

Le esperienze fatte nei primi anni possono essere responsabili di buona parte dei pregiudizi che troviamo negli individui adulti. I bambini spesso imparano a pensare come i loro genitori e apprendono dai mass media diversi atteggiamenti negativi.

Sono la famiglia e la scuola che per prime dovrebbero educare i bambini per evitare che la disuguaglianza di genere si trasformi, negli anni, in disuguaglianza sociale, nel lavoro e nella vita.

Il che vuol dire non solo aiutare nella scelta del proprio percorso non pregiudicando alle ragazze studi ritenuti ancora da tanti maschili, anche perché poi le ragazze che vi si cimentano, dimostrano spesso di essere più brave e di ottenere risultati migliori e in breve tempo.

Vuol dire anche educare alla lotta contro stereotipi ormai entrati nel senso comune e quindi facilmente assimilabili nella crescita, stimolando l’esame critico.

Bisogna partire dal presupposto che i ruoli, non essendo imposti per natura, ma, in quanto frutto di stereotipi, possono essere modificati per garantire a se stessi la libertà di scelta.

Solo questa consapevolezza e la comprensione delle logiche che sottintendono i nostri comportamenti e le dinamiche sociali ci permettono di assumere un approccio critico nei confronti di ciò che ci viene proposto per eliminare tutti gli atteggiamenti limitanti e condizionanti.

Solo affrontando la realtà con un’ottica di genere possiamo combattere le disuguaglianze sociali e tutti quegli stereotipi culturali che, ancora oggi, impediscono non solo alle donne, ma anche agli uomini, di esprimere le loro potenzialità.

[1] Santoni B. (a cura di), Contro l’Omofobia. Strumenti delle Amministrazioni Pubbliche locali dell’Unione Europea, in Regione Piemonte, Torino 2011

La storia degli stereotipi di genere comincia con le favole

“Se analizziamo una fiaba, tra le più comuni, come Cappuccetto Rosso, leggiamo la storia di una bambina mandata in giro per i boschi da una madre irresponsabile; per la risoluzione del problema, si deve porre fiducia della presenza di un maschio nel posto giusto al momento giusto: il cacciatore coraggioso.

Quando Biancaneve è ospitata dai nani, che vanno al lavoro, tiene la loro casa in ordine (lava, pulisce, cucina cantando felice); poi riesce a mettersi negli impicci accettando la prima mela che le viene offerta da una sconosciuta e se ne tira fuori grazie ad un uomo, il Principe Azzurro.

Cenerentola è il prototipo delle virtù domestiche, non muove un dito per uscire da una situazione intollerabile, senza coraggio e dignità; accetta il salvataggio che le viene offerto da un uomo sconosciuto, il Principe”[1].

Biancaneve e il principe

http://www.disney.it/principesse/principesse/ariel.jsp[4]

In una ricerca di Irene Biemmi, pubblicata nel 2010, estesa a diversi testi scolastici delle scuole primarie, emerge che nel mondo dei “libri di lettura”, il genere maschile è sovra-rappresentato rispetto a quello femminile e le caratteristiche attribuite a maschi e femmine sono differenti.

Le fiabe della tradizione propongono donne miti, passive, unicamente occupate alla propria bellezza, incapaci; le figure maschili sono attive, forti, coraggiose, leali e intelligenti.

Le figure femminili delle favole generalmente appartengono a 2 categorie: le buone e inette o le malvagie.

Nelle fiabe dei Grimm l’80% dei personaggi negativi sono femmine. Le poche figure femminili buone e positive, sono le fate che, però, non usano le proprie risorse personali, ma un magico potere conferito dall’esterno[3].

La Sirenetta

“Narrare ad altri e narrare a se stessi serve a trasmettere messaggi, a dare spiegazioni, a trasmettere modelli.

Contribuisce a costruire, parola dopo parola, il tessuto della cultura di un popolo, a registrarne i mutamenti, a indicarne le regole. Raccontare è un atto sociale, culturale, implicitamente normativo perché la narrazione indica in modo inequivocabile che cosa una cultura considera accettabile, lecito, morale e che cosa invece non lo è”[5].

I libri di lettura hanno una notevole ricaduta sulla concezione che il bambino crea su se stesso e sul mondo circostante.

Le fiabe, in particolare, contribuiscono a fissare caratteri e destini e a definire mappe di orientamento nella società, agiscono sulle rappresentazioni della vita che le persone si creano.

 

[1] Biemmi I., (2010). Educazione sessista. Stereotipi di genere nei libri delle elementari, Ed. Rosenberg & Sellier, Torino 2010

[2] Tutti i personaggi e le immagini di Biancaneve e i sette nani sono copyright © Walt Disney e degli aventi diritto. Vengono qui utilizzati esclusivamente a scopi conoscitivi e divulgativi

[3] Cossettini E, Maschi e femmine nelle favole e nelle storie: gli stereotipi di genere nella letteratura per l’infanzia, in http://www.misurafamiglia.it/maschi-e-femmine-nelle-favole-e-nelle-storie-gli-stereotipi-di-genere-nella-letteratura-per-linfanzia

[4] Tutti i personaggi e le immagini di Biancaneve e i sette nani sono copyright © Walt Disney e degli aventi diritto. Vengono qui utilizzati esclusivamente a scopi conoscitivi e divulgativi

[5] Borgato R., La mela avvelenata, Edizioni Ferrari Sinibaldi, Milano 2013

Una definizione di stereotipi di genere

Stereotipi sessuali e di genere

Per stereotipi sessuali e di genere si intendono quei meccanismi di categorizzazione ai quali ricorrono gli individui per interpretare, elaborare, decodificare, ristrutturare la realtà sessuale, ossia la rappresentazione di ciò che è maschile e ciò che è femminile.

Lo stereotipo femminile verte sulla posizione più subordinata della donna rispetto all’uomo. Il suo ruolo è sempre stato legato fin dagli albori al compito di madre e moglie, che si occupa della casa e della famiglia.

Appare chiaro che le caratteristiche discriminanti i sessi vengono definite secondo una schematizzazione che nella definizione del maschile individua le caratteristiche di attività, assertività, ambizione, competenza, auto direzione, orientamento allo scopo, indipendenza, autonomia, decisione e, nella definizione del femminile, caratteristiche legate all’ambito interpersonale, quali emotività, gentilezza, cordialità, sensibilità alle relazioni, bisogno di filiazione e nel contempo passività, remissività, dipendenza, ecc.

In questa direzione, tutte le tipizzazioni positive risultano connesse al maschile, mentre il negativo è strettamente associato al femminile; si evidenzia dunque un chiaro contenuto di dominanza/potere per lo stereotipo maschile e di subordinazione/sottomissione per lo stereotipo femminile.

Gli stereotipi di genere sono una sottoclasse degli stereotipi. Quando si associa, senza riflettere, una categoria o un comportamento a un genere, si ragiona utilizzando questo tipo di stereotipi. Non è un caso se la maggior parte di noi associa un ingegnere o uno chef a un uomo, mentre secondo le nostre mappe mentali l’insegnante di scuola materna è una donna. Associazioni che nella nostra mente scattano automatiche e che quindi sono molto difficili da estirpare o cambiare[1].

L’uso degli stereotipi di genere conduce infatti a una percezione rigida e distorta della realtà, che si basa su ciò che noi intendiamo per “femminile” e “maschile” e su ciò che ci aspettiamo dalle donne e dagli uomini. Si tratta di aspettative consolidate, e non messe in discussione, riguardo i ruoli che uomini e donne dovrebbero assumere, in qualità del loro essere biologicamente uomini o donne.

Ad esempio la donna è considerata più tranquilla, meno aggressiva, sa ascoltare e ama occuparsi degli altri, mentre l’uomo ha forte personalità, grandi capacità logiche, spirito d’avventura e capacità di comando.

La donna, giudicata sulla base di stereotipi, si ritrova come ingabbiata in uno stile di vita e in situazioni che ne limitano l’azione e il pensiero: ad esempio, fatica non poco a far comprendere che le proprie aspirazioni e attitudini non si limitano al ruolo materno e alla cura dei propri familiari.

http://www.liberoquotidiano.it/news/libero-pensiero/881722/Togliete-i-libri-alle-donne-.html

[1] http://www.regione.piemonte.it/pariopportunita/dwd3/CDP/temadic2008.pdf

La donna e la televisione

Come fa notare l’avv. Moretti, è ormai risaputo che “la televisione italiana rappresenta la società in un modo irreale, macchiettistico quasi, rappresentando uomini e donne di una Italia che non esiste, o non esiste più.

Uomini attempati vestiti in giacca e cravatta al fianco di giovani seminude, belle e mute.

Non solo in programmi quali Veline, Ciao Darwin e Striscia la Notizia al centro di critiche da anni, ma anche in icone della modernità e dell’intellettualismo come Che tempo che fa (si pensi alla bella svedese Filippa Lageback che accanto a Fazio, non ha altro ruolo se non quello di sorridere) o alle vallette del Festival di Sanremo.

La donna rimane ai margini, subordinata, muta o tutt’al più sorridente, oggetto di sketch televisivi dove l’uomo è dipinto come un vecchio bavoso che seduce la giovane, spesso inquadrata dal basso” [1].

 

 

[1] Moretti C., Stereotipi di genere e discriminazione in Tv. L’Italia è fuori legge in http://tlc.aduc.it/rai/articolo/stereotipi+genere+discriminazione+tv+italia+fuori

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Approvato in Senato il Disegno di Legge n. 1200/2019

Approvato in Senato il disegno di legge n. 1200/2019 di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

Ribattezzato “Codice rosso” introduce i reati di revenge porn, sfregi e matrimoni forzati, impone pene più severe per reati commessi in contesti familiari o nell’ambito di rapporti di convivenza e aumenta le pene per violenza sessuale e stalking.

Nello specifico, il provvedimento stabilisce che la polizia giudiziaria dovrà comunicare al pubblico ministero le notizie di reato relative a maltrattamenti, stalking, violenza sessuale e lesioni aggravate compiute all’interno del nucleo familiare o tra conviventi; la vittima dovrà essere ascoltata dal magistrato entro massimo tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. Nel caso venga accertata la violenza, il responsabile potrà essere condannato ad una pensa detentiva dai tre ai sette anni; la pena potrà essere aumentata fino alla metà se la violenza è avvenuta davanti ad un minore, ad un disabile o ad una donna incinta, o se l’aggressione è armata.

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Le tematiche di genere nella programmazione scolastica

La prima causa della violenza maschile sulle donne, che non è solo fisica ma anche psicologica ed economica, sta nella discriminazione che le donne subiscono a causa della cultura patriarcale dominante.

Restare indifferenti, o relegare alle donne queste tragiche problematiche, è una forma di connivenza.

La lunga coda di violenze e soprusi nei confronti delle donne, di cui quotidianamente veniamo a conoscenza, lancia necessariamente messaggi di allarme su quelle che sono le relazioni tra generi e impone di riconsiderare il modello educativo in alcune sue parti.

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